Una pianta coltivata con tante cure da tempo immemorabile, una pianta le cui foglie venivano offerte in dono alle divinità. Probabilmente le popolazioni antiche ne conoscevano tutti gli aspetti e gli effetti dell’uso nelle varie quantità, sia sul corpo che sul sistema nervoso. Di conseguenza, ne riservavano l’uso ai re, ai sacerdoti e ai loro favoriti per le occasioni più importanti; successivamente, vari settori dell’industria, tra cui quella farmaceutica ed agroalimentare, hanno iniziato a studiarne e valorizzarne le proprietà; in effetti, queste foglie debbono possedere delle proprietá rare e benefiche. Il maggior pregio riconosciuto in esse è quello di servire come alimento e come stimolante. Circolano molte leggende, molte mistificazioni e molti luoghi comuni sull’uso della coca nelle Ande e tra le popolazioni antiche. Si suppone che gli indios con l’uso della Coca sopportassero lunghe ed aspre fatiche, viaggiando per lunghi tratti ad altitudini proibitive e compiendo lavori molto pesanti. Le cronache raccontano che “L’indigeno prende una piccola quantità di foglie (una o due dramme), le mastica formando una specie di bolo che chiama acullico, a cui unisce un frammento di materia alcalina (patate cotte e cenere ricca di potassa) detta llipta”. Questa sostanza alcalina serve a facilitare la secrezione della saliva e a rammollire le foglie della Coca d’inferiore qualità talvolta assai dure. Allo stesso scopo si fa uso della calce viva come succedaneo alla llipta.
In base alle informazioni raccolte nella principale enciclopedia on-line, Wikipedia, l’uso delle foglie di coca, attraverso la masticazione, è certamente molto antico e risale ad un paio di millenni a.C. Trattandosi di una pianta tropicale il suo uso non era, né lo è oggi, come spesso si crede, relegato solo alle popolazioni andine che, evidentemente, dovevano procurarsela commerciando con le popolazioni delle aree tropicali. Le foglie di coca non erano quindi un bene di largo consumo. La crescita della produzione e del consumo delle foglie di coca è stata opera degli spagnoli durante i primi decenni della conquista: nell’uso delle foglie di coca trovarono un ottimo alleato per migliorare la produzione semischiavista nelle miniere di Potosì. Nel corso del XVI sec. la produzione di foglie di coca passerà da 100 tonnellate a più di 1.000, quasi tutte assorbite dalle miniere d’argento di Potosì e dintorni, nell’attuale Bolivia.
Le foglie di Coca, raccolte in una borsa di pelle, erano il leggendario compagno degli indios del Perù, della Bolivia, del Cile, dell’Argentina e di altre Province della colonia. Sempre i cronisti riferiscono che “L’ acullico all’indiano è cibo, è stimolo, è digestivo, è conforto, è tutto. Qualunque privazione per l’indiano, fuorché quella delle foglie della Coca. In alcuni luoghi le foglie si polverizzano nel mortaio e si conservano in un involto erbaceo miste alla cenere della Cecropiapalmata”. Il peruviano Hipólito Unánue, nel Settecento sosteneva che «in situazioni di penuria alimentare, soprattutto di fonti proteiche, quali la carne, la provvidenza ci ha fornito questa meravigliosa pianta della Coca».
Uno dei principali studiosi dell’uso e delle proprietà della coca è Mantegazza. Secondo questo professore, “i più temperanti ne consumano da mezz’oncia ad un’oncia al giorno, divisa in due razioni, colle quali si preparano al lavoro della mattina e al riposo della sera. Non è vizioso però quell’indiano che ne consuma anche due, tre e quattro once al giorno”.
Paolo Mantegazza (Monza, 1831 – San Terenzo, 1910) fisiologo, antropologo, patriota e scrittore italiano. Fu uno dei primi divulgatori delle teorie darwiniane in Italia. Deputato dal 1865 al 1876 e senatore dal 1876 sotto il Regno d’Italia. Dopo aver esercitato la professione medica in Argentina, creò a Firenze la prima cattedra italiana di antropologia; fu difensore del darwinismo. Nel 1859 pubblicò il saggio «Sulle virtù igieniche e medicinali della coca e sugli alimenti nervosi in generale«; aveva infatti osservato (e sperimentato personalmente), nel corso di una sua lunga permanenza in Perù, l’ampio uso che gli indigeni facevano delle foglie di coca, «la magica pianta degli Incas», descrivendo in termini più che positivi gli effetti provocati dalla sostanza. In quello stesso periodo, in effetti, non pochi medici e scienziati proponevano di utilizzare la coca per fini terapeutici.
Il Mantegazza arriva a queste conclusioni:
- La Coca esercita sul ventricolo un’azione stimolante particolare per cui facilità assai la digestione (infusione di mezzo grammo di foglie in una tazza d’acqua bollente).
- In alta dose produce aumento di calore, di polsi e di respirazione e quindi vera febbre.
- Essa può produrre un leggero grado di stitichezza.
- In dosi mediocri (da tre a sei grammi) eccita il sistema nervoso in modo da renderci più atti alle fatiche muscolari e ci dà una resistenza massima contro le cause alteranti esterne, facendoci godere uno stato di calma beata.
- In dosi maggiori la Coca produce allucinazioni e vero delirio.
- La coca può eccitare il sistema nervoso, in misura quattro volte superiore rispetto al the.
- Probabilmente essa è atta a diminuire alcune secrezioni.
- Si dice che aiuti a mantenere bianchi i denti.
Ovviamente, come per molti altri prodotti di consumo umano (primo fra tutti l’alcool), ci sono alcune controindicazioni, soprattutto per l’uso in quantità eccessive: la coca ad alte dosi non deve essere usata da chi soffre di congestioni cerebrali o ha tendenza all’apoplessia. L’abuso continuato della coca può produrre l’ebetudine e la demenza.
Nell’attualità, i principali ed unici produttori mondiali di foglie di coca sono la Colombia (100 mila ettari coltivati), il Perù (50 mila ettari) e la Bolivia (30 mila ettari), e purtroppo in questi Paesi ci sono dei notevoli problemi di ordine pubblico collegati a questo tipo di coltivazioni, perchè il confine tra produzione legale (usi farmaceutici ed alimentari della foglia naturale) ed illegale (preparazione di stupefacenti) è molto labile. Inoltre, le coltivazioni di coca rappresentano l’unica fonte di sostentamento di molte comunità agricole della regione.
L’estensione delle coltivazioni è molto variabile: a volte il numero di piantagioni effettive si discosta molto da quelle registrate dai programmi dei rispettivi governi, i quali propongono periodicamente delle coltivazioni alternative, grazie anche ad incentivi offerti da vari paesi, e normalmente canalizzati dalle Nazioni Unite per riconvertire le coltivazioni di coca in prodotti legali.
In Colombia, dopo anni di costante incremento, le coltivazioni sembrano essersi stabilizzate, grazie anche all’ampio uso delle forze militari e al polemico utilizzo di erbicidi molto potenti, provvedimento che ha provocato anche le proteste del governo dell’Ecuador, sia per gli effetti negativi sull’ambiente delle foreste amazzoniche sia per quelli sugli abitanti locali e sulle loro coltivazioni legali. In Perú e, soprattutto in Bolivia, le coltivazioni, dopo alcuni anni di riduzione o stabilizzazione, si stanno reincrementando rapidamente per gli scarsi controlli governativi, non facilitati dall’estensione e dall’inaccessibilità del territorio.
Nonostante il vero stupefacente, la cocaina, si estragga chimicamente attraverso un processo complesso ed utilizzando rilevanti quantitativi di foglie, la foglia stessa di coca è considerata dalle Nazioni Unite uno stupefacente ed il suo uso legale e tradizionale è limitato solo ad alcuni paesi o regioni (tutta la Bolivia, tutto il Perú, il nord dell’Argentina, alcune regioni colombiane, come la Sierra Nevada di Santa Marta, dove è usata solo dalle popolazioni indigene Arhuaco, Kogi e Wiwa)
Va inoltre sottolineato che per l’uso tradizionale del «acullico«, cioè del masticare le foglie di coca, o per la fabbricazione di mate o altri prodotti locali, venga destinato attorno al 10% della produzione totale di foglie di coca il cui eccedente, non è mistero per nessuno, viene quindi usato per la fabbricazione di pasta basica e, successivamente, di cocaina. È opinione comune che anche in alcune bevande si usino foglie di coca depurate dell’alcaloide stupefacente.
Non va tralasciata, infine, la sua innegabile proprietà di combattere notevolmente gli effetti del cosiddetto “soroche”, il classico mal d’altura che investe l’organismo quando si raggiungono in poco tempo altitudini elevate.